Relazione di Marc Peschanski all’undicesimo incontro dell’European Neurological Society tenutosi a Milano il 27 Aprile 2001.

"Neurotrapianti fetali per il trattamento della Corea di Huntington: un passo avanti."

Traduzione riassuntiva:

"Non sto per presentarvi una cura per la Corea di Huntington, tutto ciò che ci prefiggiamo di ottenere con questi neurotrapianti è di aiutare le persone affette da questa malattia a vivere un’esistenza migliore. Non si tratta quindi ne’ di prevenire la malattia ne’ di sconfiggerla. Queste sperimentazioni di trapianti avvengono in diversi paesi della Comunità Europea che hanno deciso di collaborare tra di loro (tra cui Inghilterra, Svezia, Germania, Belgio e Francia). Nel 1992, prima ancora dell’identificazione del gene mutato che provoca la malattia, abbiamo deciso di tentare la strada della chirurgia e l’inizio dell’intera operazione ha preso il via alla fine del 1996. Osservando alcune foto dello striato del cervello di pazienti affetti in diverse fasi da Corea di Huntington, si nota che questo, apparentemente "normale" nelle primissime fasi della malattia, gradualmente si deteriora. Per evitare che ciò avvenisse potevamo seguire due strade: cercare di proteggere i neuroni, ricercando una proteina che riuscisse ad evitarne la morte, oppure tentare di rimpiazzare i neuroni danneggiati attraverso un trapianto. Le prime sperimentazioni, su cavie di laboratorio all’inizio e su pazienti affetti da Morbo di Parkinson poi, consistenti nell’impianto di neuroni fetali nella zona colpita dalla malattia, avevano avuto buon esito, ed è stato deciso di tentare con i pazienti affetti da Corea di Huntington. Lo scopo era di innestare dei neuroni che prendessero il posto di quelli morti, ricomponendo così una catena che era stata rotta a causa della morte delle cellule nello striato. Questo è stato possibile perché la concezione delle cellule cerebrali è cambiata, dall’85 c’è stata una vera e propria "rivoluzione concettuale" del cervello. Fino agli anni ’80, almeno fino all’85, nel campo della neurologia non era stato ancora accertato che le cellule cerebrali si "muovessero", cambiando le connessioni le une con le altre, mutando continuamente, continuando a crescere. Dopo l’85/87 nessuno poteva più ignorare che la realtà fosse questa. Diveniva quindi plausibile l’ipotesi di "rimpiazzare" i neuroni danneggiati con altri "nuovi", che non avessero ancora mai stabilito questi contatti. I nuovi neuroni, infatti, dovevano essere accettati e connettersi con i neuroni adulti già presenti. Le cellule impiantate, quindi, dovevano connettersi specificamente con i neuroni dello striato in un’area ben precisa. Un impianto di neuroni nello striato è possibile SOLO se si utilizzano esclusivamente altri neuroni di striato. In generale nei trapianti di organi ci sono sempre delle difficoltà, dalla conservazione degli organi all’obbligo di abbassare molto la temperatura del paziente durante il trapianto. Questo non avviene con i trapianti cerebrali. E’ necessario solo selezionare il giusto donatore, selezionare le cellule specifiche che dovranno rimpiazzare le cellule di cui si ha bisogno, immetterle in un ago che deve essere introdotto nel cervello del paziente senza dover aprire la calotta cranica, semplicemente operando un minuscolo foro direttamente nel cranio. Ovviamente il neurochirurgo valuterà prima come sia organizzato il cervello del paziente per conoscere l’esatta collocazione della lesione. Il donatore è sempre un feto. Perché cellule fetali, quindi? Un trapianto di cellule venute da un donatore adulto è pressoché impossibile, perché i rapporti tra le cellule (tra cui una forma di protezione) sono già stabiliti. Nel selezionare le cellule dello striato inevitabilmente si devono "tagliare" le altre zone, rompendo i rapporti di protezione e rendendo impossibile la sopravvivenza delle cellule prelevate. Non è ipotizzabile un donatore adulto morto, poiché la morte fisica coincide con la morte cerebrale e non si possono prelevare neuroni vivi da un cervello morto. Restano quindi le cellule fetali. Il lasso di tempo perché il prelievo sia utilizzabile è molto stretto. Bisogna infatti prelevare neuroni dello striato che non abbiano ancora stabilito una connessione tra di loro. Avranno così modo di espandersi nella nuova locazione (nel cervello del ricevente) dopo il trapianto. Per il Morbo di Parkinson i limiti per il prelievo erano tra le 5 e le 8 settimane dal concepimento. Prima di questi tempi i neuroni non sono ancora identificabili, e dopo sono già troppo sviluppati per poter "attecchire" dopo il trapianto. In America i neuroni erano stati prelevati dopo sette settimane, ma vennero lasciati in coltura e continuarono a svilupparsi, divenendo inutilizzabili, un errore che non è stato ripetuto. Per la corea di Huntington il prelievo dei neuroni dello striato va effettuato tra le 7 e le 8 settimane dal concepimento, quando hanno cominciato a definirsi e si possono identificare, poiché hanno già il fenotipo dei neuroni dello striato, ma non hanno ancora stabilito processi tra di loro. Dopo il trapianto per il processo di neurogenesi da ogni cellula sopravvissuta nasceranno milioni di altre cellule. Quando abbiamo iniziato questa avventura nel 1992, prima di affrontare i trapianti veri e propri, dopo aver verificato i primi risultati in laboratorio sulle cavie, ci siamo trovato di fronte a due punti che andavano risolti prima di iniziare l’intero processo. Innanzitutto dovevamo verificare l’origine delle cellule, scegliere il donatore adatto, perché prima di allora non si erano mai fatti trapianti con cellule cerebrali fetali, e poi dovevamo essere certi che i trapianti non fossero deleteri per il paziente. Le verifiche per chiarire questi punti sono state fatte con trapianti sperimentali sui macachi (seguiti per un periodo tra i 4 e i 9 mesi), che hanno dato esiti positivi. Nei topi era possibile controllare un miglioramento nei movimenti, ma non nelle funzioni cognitive, fatto invece verificabile nelle scimmie. Dunque una volta verificata la fonte di provenienza delle cellule e il ricevente, la sicurezza dell’intera operazione, la persistenza delle cellule dopo il trapianto ed aver adeguatamente preparato il paziente, si è proceduto con i primi trapianti. Nel 2000 sono stati resi noti i primi risultati ufficiali su 5 pazienti, scelti in 5 fasi diverse della malattia. In tre di loro c’è stato un miglioramento cognitivo e motorio, una diminuzione sia della corea che della bradicinesia (lentezza), avvenuto a una certa distanza dal trapianto (9/12 mesi). Era infatti necessario attendere che le cellule si mettessero in contatto tra di loro e stabilissero dei processi. C’è quindi stata un’inversione dei processi della malattia, un miglioramento dovuto alle nuove cellule, che non impedisce, però, alle altre di continuare a morire. Sino ad oggi (3 anni dal trapianto) i tre pazienti hanno avuto un continuo miglioramento che prosegue anche adesso. Negli altri due, invece, c’è stato un declino, un peggioramento del 10%, pari al peggioramento che si sarebbe comunque verificato se non si fossero sottoposti al trapianto. Uno di questi pazienti era quello che presentava la fase più avanzata della malattia. Nei 9/12 mesi seguenti l’operazione aveva anch’egli cominciato a mostrare dei miglioramenti, ma il suo cervello era probabilmente troppo alterato perché l’operazione fosse efficace, e gradualmente era tornato allo stadio iniziale. Da allora non sono più stati selezionati casi di Corea di Huntington in stadi così avanzati. Il secondo caso, invece, non ha avuto miglioramenti e questo potrebbe essere dovuto a molti motivi: 1) un trapianto non funzionale 2) impianto prematuro o troppo avanzato (nell’età delle cellule) 3) difetto biochimico 4) locazione sbagliata dell’innesto 5) dissezione delle cellule difettosa 6) difetto di sviluppo nelle cellule del feto.

Ovviamente questi sono i primi 5 risultati su un totale di circa 60 pazienti sottopostisi all’operazione in tutta la Comunità Europea. Noi oggi sappiamo quali siano i risultati per questi 5 pazienti nell’arco di 3 anni, ma dovremo attendere la maggior parte degli altri risultati per avere un quadro chiaro della situazione e poter verificare se il miglioramento sia in continua ascesa, oppure si stabilizzi, oppure se i pazienti torneranno al declino, e se infine l’apporto dato dall’operazione sia persistente."

TORNA ALLE NEWS